Recuperare le conoscenza saccheggiate dal patriarcato: il centro sanitario delle donne

 26/05/2020

La salute è lo specchio della società in cui viviamo e della nostra relazione con essa: solo una società libera dall’oppressione e dalla repressione sarà dunque una società sana.

Pubblichiamo la traduzione dell’intervista uscita il 18 maggio 2020 sul blog buen camino del giornale spagnolo el salto diario.
La stessa intervista si trova anche su Kurdistan América Latina.

Dopo la nostra ultima intervista sull’attività medica al fronte, continuiamo con la questione sanitaria secondo la prospettiva dell’autonomia delle donne, concretizzatasi in Jinwar, il villaggio situato nel Nord-Est della Siria, riservato esclusivamente alle donne. Ampliamo in forma scritta l’intervista realizzata dall’organizzazione giovanile “Arran” [della sinistra indipendentista catalana – n.d.t.] alla compagna internazionalista che ha creato il centro sanitario nel quale lavora come dottoressa. Ci parla della situazione attuale della guerra e della pandemia, della prospettiva della salute e di come tutto ciò sia connesso alla liberazione delle donne e alla loro autonomia.

A grandi linee, come si presenta la situazione della pandemia del Covid-19 nel Nord e nell’Est della Siria?

Finora la pandemia ha interessato a livello medico gli Stati circostanti, ma non la Federazione democratica del Nord e dell’Est della Siria, dove si sono registrati solo due casi isolati più d’una settimana fa; ciononostante, da un mese e mezzo l’Amministrazione autonoma di questo territorio ha adottato tutte le misure preventive, ha chiuso le frontiere, instaurato il coprifuoco e lanciato una campagna di educazione e sensibilizzazione sulle procedure materiali necessarie a prevenire il Coronavirus.

Fin qui la storia è la stessa che in molte altre zone del mondo: la differenza rispetto agli altri Stati, sta nel fatto che qui l’amministrazione questi provvedimenti li adotta a favore del popolo, cioè con l’obiettivo di proteggere la società anziché di approfittarne per trarre vantaggi economici o aumentare il proprio potere sulla popolazione. Oltre all’adozione delle misure si cerca di tener conto, per quanto possibile, delle esigenze della società, e a tal fine si sono creati dei comitati che operano per risolvere le difficoltà che sorgono in questi momenti, in relazione alle necessità primarie – benché ovviamente, trattandosi d’un momento complesso, vi siano difficoltà rimaste tuttora prive di soluzione; ad esempio si stanno assegnando aiuti alimentari alle fasce della popolazione con meno risorse, e dinanzi all’aumento della violenza domestica di genere s’è deciso di permettere alle organizzazioni delle donne di continuare a tenere le proprie riunioni per poter dare risposte, poiché l’organizzazione rende le donne meno vulnerabili a questo tipo di violenza.

L’analisi della pandemia elaborata qui è che essa sia conseguenza diretta dello sfruttamento indiscriminato della natura da parte del sistema capitalista nel quale viviamo e della mentalità che ne deriva, i quali generano forme di vita incompatibili con l’esistenza: diviene dunque più ovvia che mai la necessità di costruire una società fondata sulla democrazia, sull’ecologia e sulla liberazione della donna, che sono i pilastri di questa rivoluzione.

È molto presente anche l’idea che il Coronavirus sia oggetto d’una strumentalizzazione mirata a condurre una guerra psicologica, e di fronte a ciò si considera assai importante evitare che tra la popolazione si diffonda il panico; si presta particolare attenzione al trattamento dell’informazione nei mezzi di comunicazione e per loro tramite si diffondono riflessioni per aiutare la gente a comprendere la situazione: di questi tempi, i media sono più che mai strumento pedagogico. Inoltre, si esorta la popolazione a difendere la società da questa aggressione, proprio com’è abituata a fare di fronte ad attacchi d’altro tipo: l’appello al rispetto delle misure di prevenzione va a beneficio non della singola persona ma della società. Su questa linea sono nate anche iniziative popolari, come la fabbricazione casalinga di ventilatori meccanici sviluppata da un gruppo di ingegneri, o il fatto che varie cooperative di donne abbiano convertito l’attività produttiva abituale in fabbricazione e diffusione gratuita di uniformi per il personale sanitario e mascherine, prefigurando così anche un’economia al servizio delle esigenze del popolo.

Ma in questa terra l’attacco del Coronavirus non è l’unico al quale far fronte: ci troviamo in un territorio in conflitto bellico costante, e così è tuttora, nonostante il mondo si sia paralizzato per la pandemia. Gli attacchi dello Stato fascista turco e dei suoi mercenari jihadisti non solo non sono cessati, ma sono anzi aumentati di frequenza in diverse zone, con artiglieria pesante, requisizione di beni, sequestri di persona, tagli all’acqua e all’elettricità; inoltre, sia lo Stato turco che quello siriano si servono del Coronavirus come arma biologica, tentando di spedire in questo territorio persone contagiate per diffondere il virus e indebolire la società. Ancora, non dobbiamo dimenticare che l’embargo continua e che l’OMS ha rifiutato ogni tipo di soccorso a quest’amministrazione autonoma, poiché tale aiuto equivarrebbe al riconoscimento ufficiale dell’esistenza di un territorio organizzato ai margini dello Stato.

In che cosa consiste l’attività specifica che stai svolgendo?

Ora vivo a Jinwar, la città delle donne. Qui noi donne, con bambine e bambini, seguiamo un modello di vita comunitario, unendo le forze per costruire uno spazio libero dall’oppressione nel quale autogestire le diverse sfere della vita (alimentazione, salute, istruzione ecc.) seguendo i princìpi di democrazia, ecologia e liberazione della donna. Il villaggio è stato inaugurato nel 2018 e fin dall’inizio uno degli elementi del progetto era la costruzione di una clinica per le donne e le nascite. Sono dottoressa e da quattro mesi mi sono trasferita qui per aiutare nell’apertura della struttura, di cui abbiamo festeggiato l’inaugurazione il 4 marzo nell’ambito di una settimana di mobilitazione per l’8 marzo, Giornata internazionale delle donne; il nostro servizio copre, oltre a Jinwar, circa venticinque villaggi dei dintorni. La clinica si chiama “Şîfajin”, che significa “cura per le donne”: in essa s’intrecciano la medicina convenzionale e quella naturale, con produzione autonoma di medicinali, attività di educazione sanitaria e ricerche nei dintorni per recuperare e riprodurre i rimedi naturali della zona.

Cosa molto significativa, è essere riuscite ad aprire la struttura appena prima dell’istituzione del coprifuoco. In questi momenti, nei quali la salute diviene questione cruciale, l’ospedale della città più vicina è chiuso ed è aumentata la violenza domestica di genere, assume quindi speciale importanza il nostro ruolo di pedagogia, assistenza medica e solidarietà alle donne, alle persone minori di età, alle bambine e ai bambini della zona.

Come si configura, nel quadro ideologico della rivoluzione, la questione della salute?

Nell’ambito del sistema sanitario pubblico vi sono due strutture, militare e civile, e due tipi di ospedali, situati nei centri abitati principali: gli “ospedali del popolo”, aperti a tutte e tutti, e gli ospedali militari, riservati alle Forze di difesa del Popolo; parallelamente continuano a funzionare cliniche e ambulatori privati e anche ospedali del regime in due città.

L’obiettivo è costruire un sistema sanitario democratico e gratuito. La gratuità è ormai praticamente in vigore, rimangono a pagamento solo alcuni interventi chirurgici presso alcuni ospedali civili e anche alcuni dei medicinali per la terapia domiciliare da acquistare in farmacia. Per quanto riguarda la partecipazione della popolazione, rimane ancora molto lavoro da fare. L’idea è avere – a tutti i livelli organizzativi della società, dalle comuni ai quartieri urbani, ai gruppi di abitazioni isolate, ai villaggi fino ai livelli superiori – dei comitati di salute pubblica che provvedano alle necessità attuali in relazione a quest’ambito della vita e si adoperino per cambiare la prospettiva in materia di salute.

La percezione della salute egemonica nella quale viviamo è strumentale al sistema capitalista: è quella che, insieme al metodo scientifico, è stata ed è strumento indispensabile per la sua instaurazione e perpetrazione. I sistemi sanitari attuali e l’odierna prospettiva sulla salute obbediscono agli interessi del mercato, a danno della natura; generano soggetti alienati dal proprio corpo e dalla propria mente, con l’unico obiettivo di ridurli a forza-lavoro in totale dipendenza dallo Stato per la cura della propria salute, vissuta piuttosto come oggetto di consumo. Tutto ciò costituisce un fattore indispensabile nello sviluppo della pandemia mondiale che viviamo oggi.

La prospettiva sanitaria che stiamo tentando di instaurare con la rivoluzione è quella della “salute naturale”: concetto non soltanto legato a terapie naturali e autogestite, bensì a un radicamento nella società di valori, coscienza e conoscenza necessari a edificare una società fondata su democrazia, ecologia e liberazione della donna. Non si tratta di rifiutare in assoluto i progressi raggiunti dall’industria chimica e tecnologica, a patto che siano al servizio dei bisogni della gente e rispettino la natura.

La salute è lo specchio della società in cui viviamo e della nostra relazione con essa: solo una società libera dall’oppressione e dalla repressione sarà dunque una società sana.

Tenendo conto del fatto che il progetto si svolge a Jinwar, quale legame si stabilisce tra la gestione popolare della sanità e l’autonomia delle donne?

Come commentavo poco fa, obiettivo di questa rivoluzione è una società fondata sulla democrazia, sull’ecologia e sulla liberazione delle donne. La gestione della sanità deve porsi al servizio di questi traguardi e dunque, intrinsecamente, non può che promuovere l’autonomia delle donne. Due elementi chiave per avanzare in questa direzione sono l’Accademia della Salute e progetti come la Şîfajin, la clinica di Jinwar. All’Accademia della Salute decine di studenti, in maggioranza donne, si preparano a diventare dottoresse e dottori, con una formazione quadriennale che, oltre alla scienza medica, investe anche la prospettiva della salute naturale e quindi le idee e i valori d’una società democratica, ecologica e fatta di donne libere. In un contesto nel quale i medici donne praticamente non esistono, ecco un fatto di grande rilievo. L’assistenza medica che le nuove generazioni offriranno rappresenterà un contributo importantissimo al cambiamento.

Stiamo vivendo la rivoluzione delle donne, e uno dei princìpi guida è che le donne devono essere l’avanguardia della rivoluzione. L’oppressione degli uomini sulle donne e l’instaurazione del patriarcato cinquemila anni or sono è stata fattore imprescindibile della nascita dello Stato e dei vari sistemi di dominio: fu attraverso la mentalità maschile dominante che si crearono le diverse strutture sociali che hanno sistematizzato l’oppressione – guida del cambiamento non possono dunque essere gli uomini, né la mentalità maschile egemonica sotto la quale sono educati a causa del patriarcato, poiché è stata proprio questa mentalità ciò che ci ha condotto fin qui.

Per comprendere l’importanza del ruolo rivoluzionario delle donne nell’ambito della salute, dobbiamo poi risalire alle radici della prospettiva corrotta sulla salute nella quale viviamo, radici che vanno ricercate nella caccia alle streghe perpetrata nei secoli XV-XVIII dalla Chiesa e dallo Stato in Europa e, più tardi, estesa per mezzo del colonialismo.

Furono assassinate migliaia di donne, molte delle quali legate alla medicina; i loro saperi furono espropriati ed esse furono estromesse dalla pratica medica, che divenne professione riservata agli uomini; al tempo stesso, nascevano il metodo scientifico e la scienza moderna, patriarcale nelle sue radici e sviluppatasi a prezzo della sperimentazione condotta tramite metodi atroci sui corpi delle donne. Tutto ciò, insieme a molti altri mutamenti imposti a livello sociale, costituì la base dello sviluppo del capitalismo, nonché dell’ottica sanitaria ad esso strumentale. Dinanzi a tutto questo, è imprescindibile un movimento delle donne che guidi la rivoluzione in ambito sanitario e, parallelamente, una riscrittura della storia secondo la prospettiva delle donne e la creazione d’una scienza costruita a misura di donna: la Jineolojî.

L’apertura della Şîfajin proprio a Jinwar è cosa molto significativa. Jinwar aspira ad essere esempio, guidato da donne, della società democratica, ecologica e di donne libere per la quale lottiamo.

Quali lezioni state traendo dall’attuazione del progetto?

Come sperato, molti dei problemi sanitari che spingono le donne alla Şîfajin sono legati al loro ruolo domestico, alle funzioni ch’esse svolgono, alla situazione d’oppressione che vivono.

Apprezzano il tipo d’assistenza che offriamo, libero dalla violenza e con una chiara intenzione di prenderci cura della loro salute e renderle partecipi [del processo terapeutico], al di là del trattamento concreto che forniamo loro.

Abbiamo constatato che l’ottica sanitaria capitalista, che punta a soluzioni immediate basate sui farmaci, e che perpetra l’alienazione in relazione ai processi che avvengono nel nostro corpo e nella nostra mente, è assai radicata presso le donne; ma al tempo stesso osserviamo che in loro sopravvive una certa curiosità per i rimedi naturali e il desiderio di formarsi e acquisire conoscenze intorno al tema della salute.

Tre delle donne che lavorano nella clinica ve ne sono alcune molto giovani, alla loro prima occupazione extradomestica, e imparano mentre lavoriamo insieme e costruiamo il progetto. È magico assistere alla loro trasformazione, avvenuta in così poco tempo: motivate e felici, sono già alla guida di alcune unità operative della Şîfajin. L’équipe va consolidandosi giorno dopo giorno e tutte diamo il nostro contributo all’apprendimento delle altre e alla realizzazione del progetto.

Dopo l’apertura, diverse donne dei dintorni e le loro famiglie hanno manifestato interesse a seguire una formazione clinica: dinanzi a queste richieste abbiamo deciso di aprire il progetto, consentendo alle donne che vogliano apprendere di trascorrere un periodo di sei mesi insieme a noi, imparando dalla prassi quotidiana e mediante seminari e dibattiti. Si apre così un’altra porta, una nuova possibilità d’autonomia per le donne e di mutamento della prospettiva nel campo della salute.

Infine, nel breve arco di tempo che abbiamo passato a lavorare, stiamo anche toccando con mano come la Şîfajin possa rivestire un ruolo assai importante nel rafforzamento dell’unione tra le donne e nel generare consapevolezza dell’oppressione di genere che viviamo. Noi donne – curde, arabe e internazionali – ci troviamo nello spazio-tempo generato dalla Şîfajin per la cura di donne e neonatx, proprio in seno al popolo delle donne: mettiamo in comune esperienze e conoscenze, discutiamo e al tempo stesso sperimentiamo insieme, per qualche momento, l’atmosfera e le sensazioni che si esprimono in uno spazio non governato dalla mentalità maschile dominante.

Qual è la situazione attuale in Rojava, all’indomani dell’invasione dell’ottobre scorso? Quali ripercussioni ha avuto sulla rivoluzione, e questa come prosegue?

Per affrontare questo punto dobbiamo risalire a prima dell’ultima invasione. Questo è un territorio sotto attacco costante. Di fatto, la rivoluzione del Rojava nasce da una delle falle apertesi in tempo di guerra e ancor oggi si costruisce in un contesto di guerra. Un fatto molto importante è che il processo rivoluzionario non si congela di fronte agli attacchi bensì, dinanzi ad ogni ostacolo, ricerca il percorso alternativo, la possibilità offerta dal momento. Ad esempio, durante l’occupazione di Serêkaniyê e Girê Spî, con l’impressionante resistenza creatasi, ma anche col ruolo svolto a livello diplomatico in quel momento, siamo riuscitx ad ottenere che la rivoluzione della Siria del Nord e dell’Est e le idee che la animano, trovassero diffusione ancora maggiore a livello mondiale e che l’esistenza di questo territorio autonomo fosse ogni volta più riconosciuta e legittimata, pur senza essere uno Stato.

Dall’invasione di Afrîn del 2018, ci troviamo ad affrontare una nuova fase nella quale lo Stato turco, oltre alla volontà di sterminare il popolo curdo, ha l’obiettivo di restaurare l’Impero ottomano. In questo territorio si stanno combattendo cinque tipi di guerra permanente: la guerra militare, quella psicologica, quella economica, l’attacco alle donne e alle loro strutture organizzative, la sostituzione demografica.

Si alternano periodi di guerra calda, caratterizzati da attacchi militari su vasta scala con l’obiettivo dell’occupazione diretta di nuove parti del territorio, e periodi di guerra fredda. I primi corrispondono alle occupazioni di Afrîn, Serêkaniyê o Girê Spî e sono stati un duro colpo sul piano economico per l’importanza di queste località a livello industriale e agricolo (specialmente olivi e grano). Nei periodi di guerra fredda, come l’attuale, lo Stato turco, i suoi mercenari jihadisti e i suoi alleati internazionali, continuano a sferrare attacchi militari di minore intensità e, benché sempre presenti, assumono speciale importanza gli altri tipi di guerra: l’embargo, gli attacchi alle stazioni elettriche, i tagli alle forniture idriche, l’incendio di campi coltivati, la propaganda per diffondere l’ideologia fascista, la tentata accentuazione epidemica del Coronavirus, la sostituzione demografica nei territori occupati, le costanti minacce d’una nuova invasione, ecc. In ogni momento le donne sono bersaglio diretto e sono sempre loro, in virtù del loro ruolo nella società, a soffrire maggiormente le conseguenze delle varie aggressioni.

In uno scenario simile, affinché la rivoluzione continui è necessario reagire senza tregua ai diversi tipi d’attacco, con preparativi a livello militare, educazione della popolazione, riapertura più rapida possibile di collegi, accademie e atenei, il potenziamento dei mezzi di produzione locali (produzione comunitaria o familiare, cooperative ecc.) e loro mantenimento in attività, indipendentemente dalla situazione sul piano bellico, del rafforzamento delle organizzazioni delle donne e delle loro attività e della coesione sociale.

Sopra ogni altra cosa, tuttavia, per creare e mantenere con forza quanto finora realizzato, l’importante è che il desiderio di vita libera e comunitaria sia tanto intenso da non lasciarci contemplare altro cammino che quello di lottare per costruirla, che a muoverci sia l’amore, e che tutte insieme colmiamo di significato ogni momento che viviamo. Allora la rivoluzione non morirà.

Fonte: https://retejin.org/recuperare-conoscenze-saccheggiate-dal-patriarcato-il-centro-sanitario-delle-donne-intervista/?fbclid=IwAR1jpENinvJXi9w88MPIq33RYE1P8RyYlzTx0_ystm7wDL-r-hQVmD8U2IU /26 maggio 2020)

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